venerdì 15 giugno 2012

IBIS EREMITA ORIENTALE, ESTINZIONE IMMINENTE


IBIS EREMITA ORIENTALE, ESTINZIONE IMMINENTE


La scoperta della colonia relitta di Ibis eremita (Geronticus eremita) nel deserto siriano nel 2002 fu un momento di entusiasmo per la comunità internazionale di conservazionisti e di appassionati di birdwatching. Gli ultimi sette discendenti viventi dell'ibis dei geroglifici egiziani, la divinità "psicopompa" Akh - responsabile cioè dell'accompagnamento delle anime dei defunti nell'Aldilà.

Gli ultimi sopravvissuti della popolazione orientale migratrice di Ibis eremita - separata da secoli da quelli rimasti in Marocco, appartenenti alla popolazione occidentale e residente - un centinaio di individui in tutto. La specie, comprendente le due separate popolazioni, era classificata come "gravemente minacciata" nella Lista Rossa della IUCN già dal 1994. In realtà, la popolazione orientale era stata dichiarata estinta già nel 1989, con l'estinzione dell'ultima colonia conosciuta, ubicata sull'Eufrate nell'Anatolia meridionale - mentre in Siria l'uccello era addirittura ritenuto estinto già da 70 anni prima.

Poi la scoperta inaspettata, in Siria appunto. Eppure a ben pensarci c'era ben poco da essere ottimisti circa la possibilità di salvare la popolazione orientale a partire da quegli ultimi 7 individui - specialmente considerando il contesto socio-economico e politico della regione. Senza contare poi che i fondi internazionali dedicati alla conservazione delle singole specie animali sono risicati e risibili e che le "cause prime" della Sesta Estinzione di Massa di animali e piante sul pianeta Terra - la quinta è stata quella che ha spazzato via i dinosauri circa 65 milioni di anni fa - sono davvero difficilmente affrontabili e risolvibili.

Le cause prime di questo vero e proprio biocidio-stillicidio sono infatti tutte riconducibili all'uomo, alla sua organizzazione socio-economica, ed alla sua psiche (individuale e collettiva):
- l'ambizione all'arricchimento e consumo illimitati, una ideologia - con nessun aggancio concreto alla realtà dei fatti del pianeta - nata nei paesi occidentali e esportata poi in quelli in via di sviluppo
- la crescita esponenziale e incontrollata della popolazione umana nei paesi poveri ed in via di sviluppo (con associato anelito di poter un giorno arricchirsi e consumare come nei paesi occidentali) 
- un encefalo, quello umano, essenzialmente programmato per decidere e pensare sul breve periodo (identico in questo a tutti gli altri animali)
- una spiccata tendenza a negare la realtà delle cose, al fine di controllare ansia e angoscia.

Nonostante tutto ci si è provato, con un certo entusiasmo; ci si è buttati nella mischia, specialmente chi vi scrive, nel tentativo, abbastanza folle, di salvare l'Ibis eremita nel Medio Oriente. Anche perché sembrava una eccellente specie "flagship" (simbolo, emblema), un buon "ombrello" cioè per perorare la causa di tutto l'ecosistema della steppa siriana. I problemi da risolvere però erano enormi soprattutto perché, come se non fossero bastati quelli tipici della steppa siriana (caccia incontrollata, desertificazione galoppante e sviluppo incontrollato di infrastrutture), si doveva al contempo cercare di affrontare anche tutte quelle minacce a cui gli sparuti pennuti andavano ad esporsi durante la lunga migrazione e lo svernamento fuori dalla Siria (6 mesi l'anno), in territori a quei tempi sconosciuti - per  svelare questo mistero ornitologico occorreva catturare ed equipaggiare con marcatori satellitari alcuni degli uccelli.

Rimboccateci le maniche, durante i primi anni, si è riusciti a lavorare sul campo con alta efficienza e senza grandi preoccupazioni, sotto il cappello della Nazioni Unite (FAO) e con i fondi della cooperazione italiana, riuscendo così a istituire un programma di protezione intensivo e ad addestrare vari esponenti della comunità locale (governativi, cacciatori e beduini nomadi) a proteggere la colonia di ibis, con risultati incoraggianti (14 giovani involati in 3 anni). I primi rangers e eco-guide del paese sono nati da questa fase del progetto, insieme alla possibilità concreta di sviluppare e promuovere l'ecoturismo a beneficio delle comunità locali.

Ma ecco che nel 2004 questo progetto finisce inaspettatamente e ci si ritrova a dover fare un appello internazionale a tutta la galassia delle organizzazioni no profit di conservazione della natura. Da quel momento la "missione", il progetto, finisce deviato sotto l'ombrello di un piccolo e nuovo ufficio regionale di una autorevole no profit internazionale di conservazione. Ufficio abbastanza improvvisato e confuso, tranne che nella intenzione di sfruttare al meglio l'opportunità di esposizione mediatica che occuparsi di Ibis eremiti offriva.

Da allora il progetto è stato segnato da una cronica mancanza di fondi, fiaccato da continui personalismi e territorialismi, nefaste improvvisazioni a livello istituzionale con conseguenti lentezze burocratiche estenuanti (per ottenere autorizzazioni necessarie a fare qualsiasi cosa sul campo), e una totale mancanza di consapevolezza della importanza e necessità di avvalersi della preziosa e disponibile esperienza tecnico-scientifica, maturata durante i primi 3 anni di progetto.

Così, tra mille difficoltà, in condizioni di lavoro rigorosamente in stile missionario e volontario, si è comunque riusciti a realizzare alcuni piccoli grandi miracoli, soprattutto grazie all'appoggio della First Lady siriana, Mrs Asmaa Assad: si è scoperta la rotta migratoria e i territori di svernamento in Etiopia nel 2006, sono stati effettuati vari importanti sopralluoghi nei territori di svernamento sull'acrocoro etiope, le minacce più gravi fuori dalla Siria sono state identificate (una su tutte la caccia in Arabia saudita, drammaticamente identificata nel 2009), il metodo di "supplementazione" della colonia selvatica, con individui dello stesso pool genico nati in cattività in Turchia, testato con successo. 

Purtroppo tutto questo è avvenuto troppo lentamente rispetto alla diminuzione del numero di uccelli della colonia. Il problema principale appare quello di aver trascurato i consigli degli esperti circa la necessità di protezione intensiva della riproduzione della colonia a Palmira, che fosse basata su assistenza tecnico-scientifica internazionale. Questo fatto, da solo, ha prodotto come conseguenza i fallimenti riproduttivi nel 2005 e nel 2008, fatali per la già vacillante dinamica demografica della colonia relitta.

Si arriva quindi alla penosa situazione attuale: adesso che tutte le informazioni necessarie per agire, soprattutto fuori dalla Siria, sarebbero disponibili, insieme ai mezzi per attuarle, e adesso che paradossalmente anche i fondi sarebbero disponibili, ebbene, la colonia adesso conta solo tre individui... e siamo quindi arrivati veramente al capolinea per questa leggendaria popolazione orientale di Ibis eremiti.

Durante questi ultimi 5 anni, personalmente, mi sono sentito come a bordo di una ambulanza che cercava di raggiungere disperatamente, a sirene spiegate, l'ospedale più vicino, con un grave ferito a bordo: ambulanza che però si ritrovava a percorrere una strada ricoperta di mastice o invasa da una "marmellata" di traffico.


Aldilà di quello che si dirà, e già si sta dicendo, la verità è che questa estinzione si poteva evitare, o almeno tentare di evitare con maggiore impegno e organizzazione: attivandosi con maggiore tempismo, con una mobilitazione di emergenza di fondi, avvalendosi senza esitazioni di esperienza e qualifiche - ed anche, essenziale, facendo leva sulle passioni individuali, disponibili ma frustrate continuamente. Certo che - ho imparato sulla mia pelle - i mezzi a disposizione di chi può e vorrebbe impegnarsi per salvare natura e animali, a livello internazionale, sono oggigiorno veramente limitati.

Infatti, questo "case study" di conservazione sembra suggerire che la battaglia per contrastare le minacce che gravano sulla biodiversità del pianeta, viene spesso combattuta con mezzi di fortuna e con armi spuntate - nel caso specifico poi, con pochissima convinzione da parte delle organizzazioni no profit internazionali preposte.

La verità è che esiste un flebile interesse dell'opinione pubblica e dei governi per questa tragica estinzione di massa di animali e piante che caratterizza il tempo attuale e caratterizzerà ancora di più gli anni a venire.

Pochi si rendono conto infatti che è il nostro stesso stile di vita consumista direttamente responsabile e implicato in questa estinzione di massa di fauna selvatica - forse c'è più interesse per gli animali domestici e da compagnia, con i quali si ha certo maggiore familiarità. La famosa Convenzione sulla Biodiversità di Rio de Janeiro, varata nei primi anni novanta, e tutte le altre iniziative simili e collegate che sono seguite, sono valse a poco ed i risultati ottenuti sono francamente del tutto insufficienti e deludenti.

Come possiamo sperare che gli uomini si appassionino all'attuale bio-cidio di specie non umane - che percorre come un brivido tutto il globo, senza eccezioni - quando vediamo che non riescono neanche ad affrontare seriamente le gravi minacce che incombono sul genere umano stesso (vedi per esempio il fallimento nell'affrontare seriamente il cambiamento climatico)? In effetti, un cervello programmato per decidere e pensare sul breve periodo e la tipica inclinazione umana a non "vedere" e negare ciò che non piace non aiutano molto in questo.

E poi, come possiamo sperare di salvare le centinaia di specie animali e piante al momento minacciate di estinzione (scrupolosamente registrate nella Lista Rossa della IUCN; la maggior parte sconosciute ai più), quando si sta fallendo perfino a salvare uno degli animali più belli - forse, davvero, oggettivamente il più bello e affascinante che condivida il pianeta con noi: la Tigre (sia quella del bengala che quella siberiana)? Stesso dicasi per tante altre specie animali carismatiche (vedi il panda, il rinoceronte, il ghepardo, il leone, le balene, il gorilla etc.).

La Sesta Estinzione di Massa di animali e piante sembra quindi irrevocabilmente e ineluttabilmente destinata a procedere a velocità sempre maggiore, in parallelo alla crescita della popolazione umana mondiale e alla espansione del mercato globale. Volare su un qualsiasi aereo di linea oggigiorno ci dà la possibilità di vedere come la superficie della Terra sia "butterata" e segnata dalle attività umane ormai quasi in ogni suo intimo recesso: insomma, è davvero poco lo spazio vitale rimasto a disposizione degli animali e piante selvatiche. Letteralmente, non sembra che ci sia più posto per altre creature sul pianeta - oltre all'uomo. Dovremo davvero cominciare a convincerci che ci ritroveremo un giorno non tanto lontano in un mondo senza natura e animali selvatici? Un mondo in cui la natura sarà equiparata a parchi e giardini, caratterizzati da una biodiversità bassissima, e frequentati da pochi animali commensali e infestanti, felicemente combinati e asserviti all'uomo.

La situazione del nostro pianeta e dell'umanità al giorno d'oggi richiama l'immagine di un vascello alla deriva in mare aperto, abitato da una miriade di tarli, tutti esclusivamente intenti a divorarne il legno per saziare la fame del momento e accumulare ossessivamente risorse per un futuro lontano e improbabile..., mentre l'acqua comincia ad infiltrarsi attraverso il fasciame dello scafo indebolito e tarlato.

Molti finiscono per domandarsi perché dovremmo occuparci di un'altra specie animale che scompare - seppur irreversibilmente. E.O. Wilson, entomologo e conservazionista di Harvard, nel suo recente libro "La Creazione" risponde così (immaginandosi di proporre una alleanza con chi crede in Dio): "Ciascuna specie è un piccolo universo a sé, diversa da tutte le altre per il suo codice genetico, l’anatomia, il comportamento, il ciclo vitale, il ruolo nell’ambiente, un sistema che si auto-perpetua, creato nel corso di una storia evolutiva di una complessità quasi inimmaginabile. Ciascuna specie merita che dei ricercatori vi dedichino la loro carriera e storici e poeti la celebrino. Nulla di tutto ciò può essere detto per un protone o un atomo di idrogeno. In poche parole Reverendo, è questo l’argomento morale più forte e impellente che viene dalla scienza per salvare la Creazione." 

  

Settembre 2010



Nota: un gruppo di interesse su Facebook segue le sorti degli ultimi sopravvissuti ibis orientali.

SOPRAVVIVERE AL PARADISO



SOPRAVVIVERE AL PARADISO

Le correnti maledette dei mari del sud



L’altro giorno mentre ero ad una riunione con dei colleghi ero distratto dal pensiero che la mia sedia sarebbe potuta benissimo essere vuota. In altre parole assaporavo in pieno il fatto succoso & inoppugnabile di essere ancora vivo… Infatti pochi giorni prima, il 13 Maggio 2012, l’oceano mi ha teso un agguato, mettendomi a dura prova. C’è davvero mancato un soffio che Luna rimanesse orfana…

Amo e rispetto il mare, ne ho un sacro timore reverenziale ma anche una grande attrazione. Conosco i mari temperati per il lavoro da campo e le ricerche di ecologia marina fatte in passato, sia in Italia che in Cile. Ma non conosco abbastanza i mari tropicali e le barriere coralline. Ho quindi compiuto una leggerezza che stava per costarmi molto cara.

Durante il fine settimana sono andato a rilassarmi con Claudia e Luna in una spiaggia dall’altra parte dell’isola di Upolu (arcipelago Samoa, Polinesia). Mi sono messo in acqua a fine mattinata, in fase di marea crescente, con la maschera ed il boccaglio - ma senza le pinne. Mi sono quindi disposto a nuotare ammirando i coralli dentro la laguna fino a che, ad un certo punto, avvicinandomi alla barriera d’un tratto sono stato risucchiato via da una corrente potente che mi ha colto di sorpresa. 

Come travolto da un fiume in piena venivo trascinato ad alta velocità oltre la barriera corallina in oceano aperto, passando attraverso vortici di acque imbizzarrite - in corrispondenza di una apertura, una bocca verso l’esterno, della barriera stessa. La velocità con cui venivo trascinato era impressionante: me ne rendevo conto guardando i coralli sotto di me, che correvano via velocemente verso la direzione da cui ero arrivato (ma ero io che venivo spinto in realtà nella direzione opposta, verso il mare aperto!). 

Nel tentativo di sfuggire alla stretta fatale della corrente ho tentato disperatamente di nuotare obliquamente rispetto alla direzione della corrente, senza nulla potere (per un attimo pensavo quasi di avercela fatta, ma sono stato riagguantato subito dal possente mostro). Avessi avuto le pinne forse ce l’avrei fatta.

Lo sforzo fisico per sfuggire alle grinfie della corrente mi è costato un forte affanno. Quindi mi ritrovavo a galleggiare con grave difficoltà, la maschera appannata, tra acque tumultuose e scure per la profondità. L’affanno era tale che il boccaglio non era quasi più sufficiente per respirare. Nel frattempo, mentre venivo sospinto al largo, la spiaggia era quasi sparita alla mia vista, anche grazie alle onde. Il panico ha cominciato a pervadermi rapidamente. Cominciavo a credermi perso per davvero. Sono seguiti 10-15 minuti infiniti durante i quali ho pensato che fosse finita per me. Stavo viaggiando inesorabilmente, ad alta velocità, in alto mare, nel bel mezzo del Pacifico del Sud.

Essendo sempre stato abbastanza fiducioso delle mie capacità natatorie, quel giorno dovevo imparare sulla mia pelle che, grazie al panico e all’affanno, nuotare e tenersi a galla può diventare penoso, specialmente in acque difficili. Mentre la sensazione di precarietà e la convinzione di non farcela si fa strada dentro, gradualmente, come una desolazione nera e amara. Cominciavo già a rischiare di bere. Allora ho davvero cominciato a pensare che sarei annegato nel breve giro.

Questi i pensieri e sentimenti che mi sono allora sfrecciati dentro. Bene, mettiamoci l’animo in pace, morirò a breve affogato. Guarda un po’, proprio di morte violenta dovevo finire. Proprio oggi, in questa bellissima giornata di sole, in questo mare stupendo. Mentre mi godevo queste spiagge da sogno con la bambina e la Claudia. Sora morte mi ha teso un agguato micidiale, non posso che soccombere. Devo accettarlo (benché sia evidentemente un colpo basso del destino, mannaggia, che ingiustizia!). 

Per fortuna non soffrirò molto, in un baleno cesserò di vivere e poi tutto sarà finito. Non c’è granché da preoccuparsi alla fine dei conti. Per fortuna che esiste la Luna, una sorta di mia prosecuzione. Lei consolerà tutti della mia scomparsa. Subito dopo una lieve e amara malinconia mi ha velato l’anima, come un nuvolone, al pensiero che non avrei visto la piccola crescere e non avrei mai saputo che persona sarebbe diventata, non ci avrei mai potuto parlare...  che peccato! 

Nel frattempo mi allontanavo sempre di più dalla costa, la spiaggia era divenuta sottile ed insignificante, la vedevo appena attraverso la maschera appannata, la sua vista ostacolata com’era dalle onde che mi circondavano e dalla lontananza. In compenso l’isolotto verdissimo che dalla spiaggia appariva lontano, Nu’utele, adesso era diventato enorme – la qual cosa dava conto di come mi ero allontanato. 

Il canale profondo che separa la costa dall’isolotto, mi era stato riferito in passato essere battuto dai pescecani (un tale pare che abbia avuto la testa staccata una decina di anni prima, in quel tratto di mare): ma in quel momento era l’ultima cosa a cui pensavo, tanto il pericolo di annegare sembrava imminente. Solo per un attimo ho vagheggiato che un delfino mi venisse in aiuto, come nei film (si, anche nei pressi della fine, divagavo e mi distraevo).

Tutto sembrava insomma configurarsi e svolgersi come un piano micidiale per eliminarmi. Ma a quel punto qualcosa si è riscosso in me, si è ribellato a questa rassegnazione, risvegliandomi dal torpore mortifero in cui stavo cadendo. Forse davvero è stata l’idea di non poter vedere Luna crescere - la qual prospettiva ad un certo punto mi è sembrata intollerabile. Mi sono allora detto che comunque fosse dovevo almeno vendere cara la pelle. 

Dovevo innanzitutto recuperare un po’ di lucidità, anche se mi sentivo il petto pervaso di terrore. Non dovevo avere paura del mare, ho sempre pensato che bisogna abbandonarsi a lui e alla sua potenza, lasciarsi trasportare, sperando nella sua magnanimità. Tranquilli dentro si galleggia naturalmente, la paura invece appesantisce e porta giù.

Ho perfino gridato aiuto al cielo, anche se non sono un credente. Se una chance di sopravvivere la avevo ancora quella era di calmarmi, di scrollarmi di dosso il panico e di cominciare a risparmiare energie fisiche. Dovevo ricominciare a nuotare correttamente, non in maniera scomposta come avevo cominciato a fare in preda al panico. Da quel momento dovevo solo galleggiare, assecondare ed abbandonarmi alla corrente. E così facendo riposare un po’ i muscoli, il cuore ed i polmoni affaticati. Chissà magari qualcuno mi aveva visto dalla spiaggia: speravo che Claudia mandasse in mio soccorso una barca. O magari, chissà, una volta sfuggito alla morsa della corrente avrei potuto provare a ritornare, nuotando, a riva.

Da quel momento ho cominciato a galleggiare abbandonato nelle braccia subdole e spaventose di questa corrente selvaggia dei mari del sud, che puntava verso una immensità blu cobalto. Il mare in queste isole tropicali sembra cosi dolce ed ammaliante vicino alla spiaggia, un verde smeraldo dentro la laguna - mentre fuori la barriera corallina appare appunto color cobalto o blu notte, ed incute davvero paura e rispetto! 

Ho passato così del tempo assorto guardando il grande cielo e le nuvole oceaniche sopra di me, galleggiando come un relitto, mentre cercavo di cacciare indietro il pensiero che avrei potuto perdermi nella vastità delle acque dove nessuno mi avrebbe mai più ripescato – manco le mie spoglie! In questo modo, gradualmente, ancora nelle braccia della corrente maligna, mi sono miracolosamente calmato.

Pian piano, nonchalant, avando avvertito un calo della forza della corrente, ho ricominciato a nuotare un po’ in stile medusa (uno stile di mia invenzione) e un po’ a rana. Dopo qualche tempo ho finalmente sentito che ero entrato nella scia dei cavalloni oceanici che vanno a scagliarsi sulla barriera corallina - e che quindi puntano verso la laguna e la spiaggia. Non sono le onde dei nostri mari. Sono quelle gigantesche e potenti cavalcate dai temerari surfisti oceanici. Onde da immagini di riviste patinate. La prima che mi ha investito in pieno era appunto potente e grande e mi ha portato per un bel pezzo in avanti. Lungi dall’aver timore di annegare travolto dall’ondata o di venire fracassato contro la barriera, ho cominciato a gioire dentro (forse incoscientemente?) e a sperare di cavarmela.

Mi bastava il pensiero che da quel momento era cessata quella galoppata spaventosa verso il mare aperto. Adesso stavo puntando di nuovo verso la costa, verso la vita, verso la mia piccola. Insomma nuotando con i cavalloni a poppa sono riuscito a passare sopra la barriera corallina con poco danno fisico, e a rientrare finalmente dentro la laguna – da cui poi con le ultime forze ho riguadagnato la spiaggia. Questo incubo sarà durato in tutto un quaranta cinque minuti buoni. Uscendo dall’acqua sentivo che mi faceva male il cuore dallo sforzo (ed ha continuato a dolermi per una buona ora.) Mi sentivo spossato dalla fatica e incredulo di avercela fatta.

La prima cosa che mi è venuto in mente di fare è stato di andare a sbaciucchiare la piccola: mi sono sentito quasi di non meritarla più. Avendo per così dire tradito il suo amore, la sua fiducia. La innocente mi sorrideva ignara di tutto, con i suoi occhioni teneri. Claudia mi ha spiegato di aver ritenuto di non dover dare l’allarme perché seguendomi con il binocolo non si capiva che ero in difficoltà. Lei infatti mi aveva osservato e seguito solo mentre ero nella "fase del relitto galleggiante" che da lontano non trasmetteva allarme ma calma e godimento (mentre nel momento del panico non avevo neanche pensato di sbracciarmi tanto era concentrato sul galleggiamento convulso). 

Benché lontano in maniera insolita, oltre le onde fuori la barriera corallina, le apparivo tranquillo, quasi contemplativo, in mezzo al grande mare. Non voleva insomma disturbarmi e magari rischiare che la redarguissi per un eccesso di premura e apprensione. . 

Mi sono informato con i colleghi australiani e su internet (http://www.abcnews4.com/story/17649201/break-the-grip-of-the-rip). Queste correnti che si formano in corrispondenza dei canali di uscita delle barriere coralline, nei mari tropicali, note come rip currents, sono molto ben conosciute e temute. Sono la causa n. 1 di morte per affogamento nei mari tropicali delle coste degli Stati Uniti e Australia (in quest’ultimo paese, durante il periodo di balneazione, annega in media una persona ogni due-tre giorni a causa delle rip currents). 

Anche i nuotatori provetti possono affogare in condizioni del genere, ho appreso. Giorni dopo ho saputo che presso la stessa località ed a causa della stessa corrente che ha portato via me, erano già affogate almeno due persone durante gli scorsi anni - una turista neozelandese ed un funzionario giapponese delle nazioni unite (il cui corpo non è stato più ritrovato, nonostante ricerche di vari giorni con l’elicottero). 

Sono certamente stato uno sprovveduto. In effetti prima di tuffarmi volevo chiedere consiglio ai locali, ma poi avevo visto altra gente che faceva snorkelling, e avevo pensato che fosse una situazione tranquilla, come lo avevo fatto tante altre volte. Pensavo poi che se delle correnti ci dovessero essere, si sarebbero create solo in fase di marea calante, quando l’acqua viene spinta fuori dalla laguna, attraverso i canali della barriere. Poi avevo anche fatto snorkelling tempo addietro dentro questi canali di uscita dalla laguna senza sperimentare alcuna corrente. Il fatto è, come adesso ho imparato, che queste rip currents si formano al variare delle maree, sia calante che crescente, a seconda delle condizioni locali.

Una bella lezione per me. Ho capito bene, sulla mia pelle, come la gente si ritrovi all’improvviso ad affogare e perdere la vita. Infatti spesso mi sono chiesto come sia possibile affogare, quando si sappia nuotare. Molto semplice: quando si sente il fiato sul collo della morte, ci si impanica alla svelta, ed anche sapendo nuotare bene, si affoga in un attimo. Io mi sono salvato solo grazie al fatto di essermi calmato e di essermi abbandonato alla corrente.  Certamente non mi dimenticherò mai questa giornata.

Eppure alla fine il grande oceano mi è stato benevolo. Ha comandato il gioco crudele dall’inizio alla fine. Ed è stato lui solo a decidere della mia sorte: dopo avermi spaventato a morte, mi ha riaccompagnato verso la salvezza. Ho interpretato così, a posteriori, quello che è successo: la corrente ad un certo punto invece di continuare a puntare verso il largo è diminuita di intensità, e a quel punto si deve essere sfrangiata, spingendomi lateralmente. Dandomi modo finalmente di sfuggirle entrando nel flusso dei cavalloni diretti verso la barriera corallina e la laguna. 

Certamente se la corrente avesse continuato a portarmi ancora piu’ lontano con forza costante, come ho appena letto succede con certi tipi di rip currents, mi sarei perso nei flutti lontani – come e' appunto capitato al collega giapponese qualche anno prima.

Difficilmente allora mi avreste rivisto! 

  
Samoa, Maggio 2012


Only dead fish goes with the flow – Anonymous
(solo il pesce morto segue la corrente)


NB: questo resoconto e’ stato pubblicato sul sito della agenzia governativa americana di oceanografia (National Oceanographic Atmospheric Administration – NOAA) - in quanto a loro giudizio contiene elementi istruttivi per incrementare la consapevolezza sui gravi rischi che le rip currents comportano e su come cercare di cavarsela in caso di pericolo. Ecco il link:








Il tratto di mare teatro dell’accaduto - sullo sfondo le onde che si frangono sulla barriera corallina e dietro l’isoletta di Nu’utele. Robert Louis Stevenson, che scelse Samoa come sua ultima residenza, parla nei suoi racconti di “correnti maligne” e “correnti che portano via gli squali”. Probabilmente le ha sperimentate anche lui o ne sentì parlare durante i suoi viaggi nei mari del sud. Chissà quanti esploratori e colonizzatori europei hanno perso la vita in questo modo subdolo nel corso dei secoli scorsi…


UNO SPIRAGLIO DI NATURA SELVAGGIA IRROMPE SUGLI ARENILI DELLA VERSILIA




La Versilia d'estate. File di ombrelloni a perdita d'occhio, placidi corpi unti sotto il sole e bambini vociferanti. Questa, come il 90% delle coste sabbiose italiane, un tempo era un ecosistema sabbioso con dune, ricco di piante ed animali selvatici affascinanti. Sono stati fatti sgomberare svariati decenni fa per far posto all'industria dell'abbronzatura coatta. L'unico tratto salvato dal cemento, di enorme importanza oggigiorno, è la cosiddetta spiaggia di Lecciona, tra Viareggio e Marina di Vecchiano: peccato sia diventata, la terra di nessuno, trasandata e costellata di rifiuti...

Mentre a Tonfano, o Marina di Pietrasanta, qualche mente illuminata aveva pensato di riabilitare pochi metri quadri di ambiente dunale ai lati della nuova meraviglia cementizia - un pontile - per scopi educativi, cioè per mostrare alla gente che tipo di vegetazione ci sarebbe normalmente al posto di aiole con prati all'inglese e pitosfori olezzanti. L'idea era buona ma la vista di questo minuscolo lembo di vegetazione nativa, soffocata tra il cemento ed i rifiuti, provoca un certo magone... Questo è più o meno il rapporto che oggi abbiamo, in Italia come altrove, con la natura selvaggia - la cosiddetta "wilderness" di thoreau-iana memoria.

Nel torpore ventilato di un meriggio di fine agosto 2010, dunque, file di bagnanti prendono il solo in batteria, mentre la battigia è invasa da un intrico di bipedi flaccidi in ogni direzione - ricordano quelle colonie di mammiferi marini che si vedono nei documentari, foche o leoni marini, che si concentrano pigramente in certi tratti di costa di paesi lontani.

Ecco che senza preavviso, in questo scenario scontato, prevedibile, accuratamente regimentato, irrompe l'imprevisto, lo stupore, la meraviglia: una megattera, una balena con la sua silhouette improbabile e inconfondibile, salta fuori dall'acqua a trecento metri dalla riva, sollevando una mole inconcepibile di spruzzi nell'aria mentre si lascia cadere a peso morto nell'acqua con le sue 40 tonnellate di peso... "Balena, balena!!" cominciano a udirsi grida da tutte le direzioni...

Sembra un film, tutta la gente sul bagno-asciuga a scrutare il mare, attonita per l'irruzione della natura selvaggia in questo scenario familiare e addomesticato. I bambini urlano di gioia ed emozione, gli adulti, con lo sguardo fisso al mare fremono scossi inconsciamente da sensazioni ataviche...

Purtroppo poche persone sono al corrente di cosa sia la natura selvaggia, la wilderness appunto - e del tesoro di biodiversità che essa contiene o conterrebbe, senza l'intervento umano. Biodiversità, uno dei termini più inflazionati dell'ultimo decennio, ma anche uno dei meno conosciuti. Pochi infatti sanno che il pianeta sta vivendo una sesta estinzione di massa di animali e piante - e che noi occidentali, con il nostro stile di vita consumista, più o meno consapevolmente, ne siamo i diretti committenti, sia a livello locale che planetario, grazie all'invenzione del mercato globale.

Ed ecco la gente nei ristoranti della costa che non sembra cosciente o curarsi del fatto che mangiare pesce "fresco" oggigiorno significa sostenere attivamente la distruzione degli ecosistemi marini del pianeta. Un esempio su tutti, la pesca al tonno - che in Mediterraneo nel frattempo è quasi sparito! -, che produce come "effetti collaterali" l'uccisione inutile di un numero enorme di altri animali marini appartenenti ad almeno 45 specie - tra cui la nostra splendida megattera insieme ad altre specie di balene, delfini, tartarughe, albatros, cavallucci marini etc.

Gli oceani potrebbero ben presto diventare dei deserti ecologici come gli arenili della Versilia, senza che noi ce ne rendiamo minimamente conto né tantomeno ce ne sentiamo responsabili... Anzi, potremmo anche pensare di essere dei veri amanti degli animali, solo perché portiamo un cane al guinzaglio o abbiamo un gatto a casa...

Ma la wilderness, la natura "selvaggia" è solo quella ancora integra e non addomesticata, non dipendente dall'uomo, con ecosistemi ancora capaci di auto-sostenersi, tramite l'interazione continua di specie di animali e piante selvatiche. La biodiversità che anima la natura selvaggia altro non è che un incredibile caleidoscopio di forme, colori e movimenti che si intrecciano di fronte ai nostri sensi; mille stratagemmi di sopravvivenza, dai quali spesso traiamo preziose indicazioni su come curare le nostre malattie più gravi. Ecosistemi naturali dai quali sia le società umane tradizionali che quelle industrializzate ancora dipendono per le loro risorse naturali. E quindi, gli animali sono anche e soprattutto quelli selvaggi, che ancora riescono a sopravvivere autonomamente, come il leviatano avvistato in Versilia - non solo cani, gatti e canarini!

E' la loro visione inaspettata che ci ispira e tocca corde emotive profonde. Perché questo? Dovremmo innanzitutto domandarci perché i bambini sono attratti dalla natura e dagli animali in modo del tutto spontaneo. Si chiama "biophilia" - termine coniato da E.O. Wilson, famoso entomologo di Harvard - questo afflato verso tutte le altre creature viventi. La risposta più scontata appare quindi che anche noi siamo appartenuti a questa grande famiglia per milioni di anni, anche noi siamo parte della natura selvaggia, e solo recentemente ce ne siamo andati distaccando - con presunzione, arroganza, miopia... Ma sentirsi parte del mondo naturale è ancora inebriante per Homo sapiens - ed è anzi ancora una componente imprescindibile dell'essere uomo e della psiche umana, secondo alcune recenti teorie.

D'altra parte, siamo arrivati al punto che oggi un bambino potrebbe benissimo pensare che natura sia il giardino del suo quartiere o un parco cittadino, o la campagna intorno alla città. Ma la vera wilderness non sono questi ambienti verdi coltivati e banalizzati dall'uomo, con una biodiversità bassissima e magari dominata da specie aliene, originarie dell'altra parte del globo; la vera wilderness sono quei luoghi in cui ancora ci si può stupire e meravigliare dall'incontro inaspettato con animali e piante, dall'osservazione di comportamenti ed interazioni.

Sono questi gli ultimi serbatoi di ispirazione e stupore, dal valore inestimabile, dove eventi ricchi di significato si svolgono di fronte ai nostri sensi.
Lo stupore, che è il punto di partenza del pensare, non è né sconcerto, né sorpresa, né perplessità: è uno stupore che ammira... ebbe a dire la filosofa e storica tedesca Hanna Arendt. Un bambino con la possibilità di un contatto con la natura, rispetto ad uno che vive nella giungla di cemento urbana, ha a disposizione infinite opportunità di stimolazione ed ispirazione, di crescita interiore - come sosteneva C.G. Jung, che visse una infanzia felice a contatto con la natura sulle montagne svizzere.

Questa megattera in Versilia con le sue affascinanti e maestose evoluzioni aeree, è un evento più unico che raro. Non solo perché avvistare una balena dalla spiaggia in Versilia è appunto un evento rarissimo - un bagnino diceva che non ne aveva mai vista una durante tutta la sua vita. Ma é proprio la megattera che rappresenta una specie totalmente occasionale e, per così dire, fuor di luogo in Mediterraneo, essendo essa una specie oceanica. Vale la pena ricordare che la megattera è una delle specie di balena più affascinanti: quella che salta frequentemente fuori dall'acqua con tutta la sua mole e che emette le suggestive e arcane sinfonie sottomarine, ancora indecifrate dall'uomo.

E' bene non farsi illusioni su questo avvistamento un po' delirante: questa "comparsata" deve essere considerata più come un canto del cigno della wilderness, che come una indicazione che il mare stia ancora bene. E' invece una dolente realtà il fatto che il mare stia ormai agonizzando, ai quattro angoli del pianeta, a causa dell'azione combinata del saccheggio perpetuato dalla pesca industriale e dell'inquinamento di natura antropica, a cui recentemente sono andati sommandosi gravemente gli effetti del cambiamento climatico.

Ci domandiamo quindi se la nostra megattera, riuscirà a schivare i mille traghetti, petroliere e yacths di vacanzieri che solcano i nostri mari. Se riuscirà a non rimanere avvelenata dagli scarichi tossici dei nostri fiumi o se troverà ancora di cosa nutrirsi nei nostri mari depauperati di vita. O se riuscirà a non rimanere impigliata nelle reti flottanti, o "reti derivanti", lunghe centinaia di Km lasciate per giorni in mare aperto per catturare gli ultimi tonni del Mediterraneo.

Certo oggi abbiamo maggiore conoscenza ed educazione e quindi una migliorata capacità di fare caso a certe cose: solo 30 anni fa un padre, alla domanda del figlioletto se fosse possibile avvistare balene dal molo di Viareggio lo avrebbe certamente deluso rispondendogli di no - perché in effetti allora questo si credeva. Ma al contempo durante le ultime decadi le occasioni di incontro di animali interessanti si sono rarefatte infinitamente. Certo le specie più comuni e opportuniste sono più facili a vedersi di 30 anni fa (cavedani e muggini, gabbiani reali, aironi, storni, ratti etc.); ma quelle più specializzate, delicate e rare stanno scomparendo ineluttabilmente ed a ritmi vertiginosi. I biologi chiamano quella attuale la sesta estinzione di massa, che segue alla quinta, quella dei dinosauri avvenuta 65 milioni di anni fa. Pochi sono i dubbi circa la causa di quest'ultima estinzione di massa: Homo sapiens e la sua fame di risorse.

La megattera della Versilia piuttosto rappresenta una occasione per riflettere sul valore della wilderness per noi esseri umani del secondo millennio, da un punto di vista non solo economico - ci dimentichiamo troppo spesso che buona parte della nostra economia si basa ancora largamente sulle risorse naturali, e che non ha alcun senso istituire separatamente un ministero dell'economia e uno dell'ambiente -, ma anche da un punto di vista spirituale, estetico e psicologico. Probabilmente siamo l'ultima generazione che si può ancora porre questo interrogativo - e incantarsi con visioni e suggestioni tipo queste inaspettate, e quindi tanto più preziose, regalateci dal passaggio della megattera agostana.

L'interrogativo da porsi è: possiamo davvero fare a meno della natura selvaggia, con tutta questa leggerezza? Dovremmo rifletterci davvero e prendere una posizione chiara. L'economia di mercato ha già ampiamente dimostrato di essere un esercizio ingannevole in quanto i suoi bilanci sono ampiamente falsati - non si tiene mai conto dei colossali danni ambientali collaterali, spesso nascosti e dilazionati nel tempo, che vengono poi ereditati e pagati dalla collettività presente e dalle generazioni future - vedi l'ultimo disastro causato da British Petroleum. Senza contare che non tutto è monetizzabile nelle nostre vite, come vorrebbero propinarci questa vera e propria specie invasiva che sono gli economisti - almeno quelli di vecchia generazione, che però, ahimè, ancora dominano largamente.

Il padre delle cosiddetta "ecologia profonda" (deep ecology), il filosofo norvegese Arne Naess, ricorda di un acceso dibattito che ebbe luogo alcuni decenni fa in Norvegia tra gli abitanti di un fiordo e il governo centrale. Oggetto del contendere: la costruzione di una diga con conseguenti effetti disastrosi su tutto l'ecosistema del fiordo. Durante una riunione, un ministro chiese con franchezza, quale valore monetario la popolazione attribuisse al danno ecologico (irreversibile) che la diga avrebbe prodotto - in modo da poter "quantificare" (termine tanto caro ad ingegneri ed economisti, ndr) una qualche forma di indennizzo. Un anziano si alzò e rispose, placidamente: quanti soldi richiederebbe lei per acconsentire di farsi tagliare un braccio?


Tonfano, Agosto 2010